Charlie Gard, ovvero il valore relativo della Vita

Charlie Gard è nato il 4 agosto 2016. Ha poco meno di 11 mesi. Attorno a lui si concentrano in queste ore prese di posizione anche violente e tutte cercano di rispondere alla domanda: “Cosa è giusto fare?”

Charlie Grad - Nuovi Orizzonti

La vicenda

A otto settimane dalla nascita è stata diagnosticata a Charlie una rarissima malattia: la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale. 16 casi al mondo, considerata incurabile. Al più, rallentabile nel suo decorso, ma ogni individuo risponde diversamente alle cure.

Dopo avere tentato alcune terapie, i medici concordano nell’affermare che per il bambino non c’è nessuna possibilità di miglioramento: la malattia si sarebbe inesorabilmente aggravata, provocando ulteriori dolori e sofferenze. Charlie nel frattempo è mantenuto in vita artificialmente, con macchinari che lo aiutano a respirare e ad assorbire le sostanze nutritive: non vede, non sente, non può emettere rumori, non riesce a muoversi e senza assistenza morirebbe.

I genitori avviano una raccolta fondi per portare il figlio negli Stati Uniti e sottoporlo ad una cura sperimentale, mai tentata prima prima sull’uomo, ma solo su topi di laboratorio. I medici si oppongono, ritenendo tale cura solo un’inutile ulteriore sofferenza per il piccolo. Martedì scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), tribunale internazionale che non fa parte dell’Unione Europea, ha respinto l’appello presentato dai genitori di Charlie Gard per consentire il viaggio e la cura negli Stati Uniti. Il ricorso era stato presentato in seguito a una sentenza della Corte suprema del Regno Unito, che aveva già respinto la stessa proposta basandosi sulle valutazioni dei medici: il viaggio e il prolungarsi del supporto vitale avrebbero solo causato altre sofferenze al bambino e non avrebbero portato a realistiche possibilità di miglioramento delle sue condizioni.

Nei giorni scorsi i Gard avevano contestato la decisione di medici e giudici di interrompere il sostegno vitale per loro figlio in ospedale, e non a casa loro insieme agli altri familiari. In ospedale ci sono però più strumenti e risorse per assistere il bambino e ridurre al minimo le sue sofferenze, hanno spiegato i medici. (fonte: www.ilpost.it)

Ognuno di noi si è trovato sicuramente a confrontarsi con il dramma di un familiare o un amico completamente schiavo della malattia o della sofferenza.

È giusto attendere? È giusto intervenire e porre fine alle sofferenze (la questione “eutanasia”)? Cos’è giusto fare in situazioni simili?

Si è letto molto sul tema in questi giorni, anche e soprattutto su siti cattolici.

Credo sia riprovevole la strumentalizzazione della vicenda a fini pseudo – politici o ideologici, così pure fare di Charlie l’ennesimo simbolo di una lotta che più che di slogan avrebbe bisogno di testimoni. Il rispetto per il dolore che questa vicenda drammatica porta con sé avrebbe dovuto chiudere la bocca ai molti che, forti solo di un semplice “secondo me”, si sono permessi di sentenziare con leggerezza.

Per cercare di capirne di più e di avere una posizione chiara, oggettiva, non polemica e fedele ai valori custoditi dalla Tradizione della Chiesa, abbiamo posto qualche domanda a don Diego Puricelli, diacono della nostra Comunità e studente di Bioetica alla Pontificia Università Gregoriana a Roma.

 

Don Diego, quando si può dire di essere di fronte ad un caso di accanimento terapeutico?

L’accanimento terapeutico si concretizza in “certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi (Evangelium Vitae, 66). 

In buona sostanza abbiamo accanimento terapeutico quando il trattamento è inutile e inefficace o addirittura dannoso. Si tratterebbe quindi di intestardirsi a procedere su una strada senza uscita. In questo caso la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia, ma esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte.

La storia di Charlie è un caso di cosiddetta eutanasia?

Il piccolo Charlie soffre di una patologia altamente invalidante per cui non esistono attualmente protocolli di cura che abbiano un’efficacia terapeutica comprovata.

Gli interventi clinici che sono stati applicati sul corpo di Charlie non si configurano però come accanimento terapeutico, perché sono semplicemente interventi volti a tenerlo in vita senza essere troppo gravosi per lui: l’idratazione, la nutrizione e la ventilazione assistite e i trattamenti di cura normale (analgesici, antipiretici, antibiotici, disinfezione delle ferite, aspirazione del muco bronchiale, etc.) sono interventi proporzionati, anche su paziente moribondo.

Le sentenze, nel caso di Charlie, hanno previsto la morte per sedazione profonda, seguita dal distacco del respiratore.

Ma, come già accennato, la ventilazione meccanica non è una terapia, bensì un mezzo di sostentamento vitale, perché la fame di ossigeno non è una patologia, ma un’esigenza fisiologica, come l’idratazione e l’alimentazione. Il respiratore semplicemente aiuta il paziente a soddisfare un bisogno di base.

Per i medici ed i giudici invece non sono dunque le terapie ad essere gravose ed inefficaci, ma è la condizione stessa di Charlie che viene considerata da medici e giudici così grave da risultare inaccettabile. L’accanimento deve quindi riferirsi non alle terapie, ma alla qualità di vita. Dunque i giudici esplicitamente hanno permesso ai medici di praticare l’eutanasia.

 

Riprendendo la Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo II, Mons. Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, sottolinea che “dobbiamo compiere ogni gesto che concorra alla sua salute e insieme riconoscere i limiti della medicina”, va perciò “evitato ogni accanimento terapeutico sproporzionato o troppo gravoso”. Inoltre “va rispettata e ascoltata anzitutto la volontà dei genitori e, al contempo, è necessario aiutare anche loro a riconoscere la peculiarità gravosa della loro condizione, tale per cui non possono essere lasciati soli nel prendere decisioni così dolorose”.

Viene allora da chiedersi: fin dove può spingersi la libertà di accesso alle cure voluta dai genitori? Perché opporsi al loro desiderio di sperimentare una cura finora mai tentata sugli esseri umani?

Non è facile rispondere a questi interrogativi, soprattutto quando si intersecano e confliggono valori diversi.

Da una parte va garantita l’autonomia decisionale ai genitori, tutori legittimi del minore, dall’altra va garantito il rispetto delle competenze degli operatori sanitari nel discernere i casi in questione. In questo bilanciamento andrebbe riscoperto il significato profondo di alleanza terapeutica fra medico e paziente, con ciò che questo implica: tra respiratori e sondini non si deve perdere di vista che al centro del dibattito c’è sempre una persona, nella sua inalienabile dignità, con la sua storia e con le sue relazioni significative.

I medici hanno affermato che non c’è nessun margine di miglioramento possibile per Charlie. Tuttavia dal panorama scientifico si sono levate diverse voci in queste ore, soprattutto da esperti nel campo della patologia di cui soffre Charlie, che la pensano in modo diverso: si conoscono molti casi di bambini dati per spacciati con pochi mesi di vita, ma che hanno recuperato e da anni vivono, pur con molti limiti e disabilità, superando di gran lunga le aspettative dei medici.

Inoltre non si è tenuto conto della possibilità di tentare la via della sperimentazione clinica, a cui erano favorevoli sia i familiari che alcuni specialisti. Ogni sperimentazione su uomo comporta certamente un rischio, soprattutto se si è limitati fino ad ora ad organismi modello; ma, di fronte ad un caso così grave, tutelando certamente la dignità del paziente, non è scegliere il male minore? Soprattutto se questo potrebbe portare vantaggi in futuro per lui e/o per altri bambini affetti dalla stessa patologia.

Comunque sia, il tentativo da parte dei genitori di ricorrere ad una “estrema” cura sperimentale per Charlie, al di là della plausibilità o meno della stessa – e questo lo lasciamo al dibattito fra specialisti – per me è la manifestazione più lampante di quanto sia importante la dimensione relazionale nella valutazione circa la qualità della vita di un bambino: qualità della vita non è solo godere di un relativo benessere/assenza di sofferenza fisica. Qualità della vita è avere vicino due genitori che si prendono amorevolmente cura di lui. Charlie in questo senso ha qualità della vita.

 

Se i genitori avessero voluto continuare a tenere in vita il proprio figlio solo grazie ai macchinari e quindi semplicemente differirne la morte, forse saremmo di fronte ad un caso di accanimento terapeutico; ma in questo caso c’è il divieto di tentare l’ultima spiaggia, che, oggettivamente, non ha alcun precedente di successo, poiché mai tentata prima.

Cosa ha voluto evitare il tribunale che ha emesso la sentenza?

Abbiamo già visto come le cure attualmente prestate a Charlie non rientrano nella fattispecie dell’accanimento terapeutico. Secondo i giudici di Strasburgo, la cui decisione è «definitiva», proseguire il trattamento «continuerebbe a causare a Charlie un danno significativo». A loro parere il bambino «è esposto a continuo dolore e sofferenza» e la terapia sperimentale a cui i genitori vorrebbero affidarsi negli Stati Uniti «non ha prospettive di successo e non offrirebbe alcun beneficio». Il tribunale ha voluto tutelare Charlie dal trascorrere le ultime ore, giorni, mesi o anni (non si sa!) nella sofferenza e nel dolore, procurandogli una cosiddetta “buona morte”. A questo punto ci si potrebbe chiedere quali parametri si siano usati per valutare il grado di sofferenza del bambino, quale oggettività ci sia, e se questo solo sia sufficiente come metro per commissionarne la morte, perché di questo si tratta.

Lo spettro dell’eugenetica,  del decidere quali vite siano degne di essere vissute e quali no, lungi dall’essere sparito dopo gli abomini perpetrati dal regime nazista, è sempre presente. Risulta a mio avviso fondamentale aiutare l’uomo contemporaneo, immerso in un’atmosfera viziata da efficientismo, utilitarismo e perfezionismo, a riscoprire la sua alta e inalienabile dignità e che “la vita umana, anche se debole e sofferente, è “sempre uno splendido dono del Dio della bontà”.

 

Come può evolvere la scienza e la medicina per evitare situazioni limite così dolorose? Siamo destinati ad incontrarne altre man mano che il progresso si fa più imponente?

Il progresso tecnico-scientifico mai come nella nostra epoca sembra vivere di vita propria, sfuggire al controllo dell’uomo e non riconoscere altra autorità se non la sua volontà di potenza come principio di realtà e limite: “Quanto si può tecnicamente fare, è lecito fare” – è il leitmotiv. La tecnica, sempre più, sta “invadendo” gli ambiti dell’inizio e del fine vita e, accanto alle ricadute estremamente positive del progresso biomedico, tutto ciò sta generando e genererà sempre più situazioni ambigue e di conseguenza interrogativi etici importantissimi.

Tuttavia oggi la stessa riflessione bioetica conosce una desertificazione di basi filosofiche e scientifiche: l’argomentazione razionale sta sempre più cedendo il passo ad una modalità narrativa soggettivistica, che fa leva sui sentimenti più che sulla ragione; i discorsi ideologici sono all’ordine del giorno. Non c’è onestà intellettuale molte volte.

A mio avviso oggi manca innanzitutto una riflessione condivisa su chi sia l’uomo: si è dimenticato come la sua identità più profonda trascenda la costituzione meramente biologica e fisiologica del suo essere. Un mistero lo abita e più dimensioni concorrono a definirlo nella sua complessità.

Il caso Charlie Gard, nella sua tragicità, ha ridestato l’opinione pubblica su queste tematiche fondamentali.

Tuttavia la voce dell’etica, per sua stessa natura, è debole: può essere facilmente messa a tacere. Per questo è quanto mai importante sensibilizzare le coscienze su temi tanto sensibili, aiutando l’uomo contemporaneo a svegliarsi dal torpore edonistico in cui giace per iniziare a ragionare criticamente, onestamente. Solo così sarà possibile orientare il proprio agire verso il vero bene, nel rispetto della dignità inalienabile di ogni uomo.

Se qualcuno, da tutta questa triste vicenda, avrà deciso in questo senso, il sacrificio del piccolo Charlie non sarà stato vano.